Premessa: lettura lunga. Promessa: non annoierà.
Se avete l’abitudine di navigare sui social media o, ancora meglio, di restare aggiornati sui trending topic della rete, non potete non aver visto come i media italiani titolavano alcuni contenuti qualche giorno fa:
Findus e Vileda, noti marchi di prodotti di consumo di massa, sono stati presi di mira dagli utenti italiani sulle loro pagine social, colpevoli di aver fatto comparire le loro pubblicità negli intervalli di una trasmissione giudicata faziosa nei confronti di una certa parte politica. Ora, non ho guardato la trasmissione e sinceramente non m’interessa il contenuto, ma mi ha interessato molto vedere un fenomeno, che è quello della pubblicità nelle trasmissioni televisive, attaccato dai consumatori di colpo ed in un modo che non avevo mai visto prima.
La prima cosa che una persona istruita può pensare è “ma davvero le persone pensano che la pubblicità sostenga i singoli programmi?”. La programmazione degli spot solitamente viene studiata per fasce orarie, e solo in casi molto specifici si affianca ad una specifica trasmissione (non vedremmo così tanti spot sugli pneumatici nel corso delle gare di F1 altrimenti!).
Davanti ad un talk show del tutto standard è ragionevole ritenere che, nella pubblicità, capiti un po’ di tutto, e che non ci sia di certo un piano complottista di sostegno di una certa forza politica.
Pensiero quest’ultimo che, invece, una certa categoria di persone è riuscita ad elaborare. Perché c’era bisogno di fare rumore, perché talvolta si vede il complotto dappertutto, perché si è immersi nella politica e, ancora, l’obiettivo è fare rumore o, semplicemente (ed è il caso più comune), perché non si ha una educazione digitale sufficiente ad interpretare bene i fenomeni che avvengono negli schermi.
Il problema è: una azienda può permettersi che in rete si parli male dei propri prodotti, anche senza avere colpe?
Soprattutto nel business dei prodotti di largo consumo, non può. Le persone che parlano in rete sono anche quelle che alimentano il business.
Ed eccoci arrivati al problema dei nuovi anni ’20: gestire una crisi sui social media.
Quando parliamo di crisi sui social media intendiamo un fenomeno, come quello accaduto, che porta una persona o un brand di rilievo a far parlare di sé per via di un fatto negativo, che può essere accaduto sia all’interno dei canali social, sia all’esterno.
Molto spesso il problema nasce sui social, magari perché l’account del social media manager è stato hackerato (è successo anche al profilo del Papa!), ma molto più probabilmente perché qualcuno non ha pensato due volte al messaggio da veicolare.
Vi ricordate di questo poco invitante augurio di Algida?
Più uno scivolone di stile che una reale scintilla di crisi. Ce la saremo già dimenticata.
Ma questo?
In questo caso il danno è doppio, perché utilizzare una modella magrissima è già di per sé un pericolo. Se poi il messaggio non aggiusta le cose, ma anzi dà il colpo di grazia, siamo veramente davanti al proverbiale doppio piede nella fossa.
A volte le cose si complicano molto di più:
Qui il problema non scaturisce in rete ma, come detto in precedenza, da un’altra direzione, finendo per arrivare sui social e trovare ampia ed esponenziale diffusione.
Quest’ultimo è forse il problema più difficile da gestire su un social network, perché non è di fatto un errore quanto un preciso ideale di azienda, difficile sia scardinare che da giustificare, che prima andava bene e ora, nella società variopinta del 2016, non più.
Avere un prodotto che comunica un certo significato significa avere due prodotti in vendita: il prodotto fisico e l’insieme di valori che esso porta con sé. E che succede quando il valore non piace? Non si compra più e anzi, si boicotta.
In realtà si può creare una crisi con errori molto più sottili di così. Il tragico episodio che ha coinvolto Germanwings (ricordate l’incidente aereo sulle Alpi dei primi mesi del 2015?) ha portato i social nel caos non tanto per l’accaduto, quanto perché la pagina Facebook ha pubblicato una immagine profilo a lutto prima ancora di dare l’ufficialità del disastro, una conferma che in tutto il mondo era attesa con enorme tensione.
Il pubblico non ha affatto gradito di essere stato informato della morte dei propri cari prima attraverso una immagine profilo e solo dopo con una comunicazione ufficiale.
Gestire una pagina social di certe dimensioni diventa difficile, quando il pubblico diventa grande e variegato: se si è un brand alimentare bisogna fare attenzione agli utenti con intolleranze e tenere a bada chi addita l’azienda come inquinante o intossicante (il caso “olio di palma” è ancora fresco nelle nostre menti). I brand di moda devono stare attenti a rispettare tutte le forme, i sessi e le personalità. E così via.
E se non lo si fa? Malissimo: ripeto, le persone che seguono il brand sui social media sono i nostri clienti potenziali e attuali!
Il primo passo è dunque quello di prevenire, pianificando da un lato la comunicazione corretta da adottare sui canali e dall’altro lavorando costantemente sull’identità del proprio prodotto, rendendola in linea con le culture odierne.
E se, con tutte le precauzioni possibili, dovesse accadere comunque qualcosa?
Dopotutto, può capitare. Un attacco hacker, senza un po’ di attenzione, è altamente possibile. O peggio, potrebbe esserci un problema aziendale al di fuori del nostro controllo (che colpa ha un social media manager se i biscotti dell’azienda sono a base di olio di palma o sono troppo grassi?).
Ecco alcuni consigli per evitare il disastro completo.
- Non sottostimare il fenomeno: può nascere come una piccola scintilla, ma basta una condivisione sul giusto canale o, peggio, un articolo di un blog, per poter accendere un incendio sui social media. Anche se il problema è di piccola portata e magari è già stato corretto se la diffusione è partita, non c’è modo di fermare l’ondata di commenti e recensioni negative.
- Assicurarsi di avere le persone giuste al proprio fianco: quando il proprio brand inizia a macinare, lasciare una sola persona ai social aumenta enormemente il verificarsi di questi problemi. La stessa cosa accade per un gruppo di persone complessivamente impreparate. Se il brand ha la capacità di generare una crisi, bisogna preventivamente correre ai ripari con le giuste figure professionali e la giusta strategia di comunicazione digitale.
- Non cancellare commenti né bannare utenti: talvolta è necessario farlo, soprattutto quando un utente pubblica sulle nostre pagine contenuti violenti o inappropriati. Ma internet è libero e tutti devono poter dire (ahimé) la propria. E se proverete a togliere questa libertà, questa vi tornerà contro. È arrivato quel momento, nella propria vita, in cui si apre la pagina Wikipedia dedicata al cosiddetto effetto Streisand e si scoprono nuove, deliziose sfumature della net sociology.
- Prepara un messaggio unico, agile, esplicativo, articolato: il caso Findus-Vileda è stato chiuso con un metodo semplice quanto efficace. Basta elaborare una risposta che sia chiara e inoppugnabile.
- Ribalta il modo di comunicare: a volte, certe accuse sui social media sono, lasciatemelo dire, veramente stupide.
Se da un lato il popolo di internet non è popolato da “cime”, dall’altro è anche vero che la rete è piena di persone brillanti, mature e riflessive, che spesso si schierano a favore del brand e lo difendono in prima linea. Preparare una controffensiva coraggiosa, “non da ufficio stampa”, che inviti a riflettere e a prendere le difese dell’azienda può essere il colpo di grazia al fenomeno di crisi, fattibile solo nel caso in cui il nostro brand non l’abbia fatta veramente fuori dal vaso, chiaramente.
Nel caso Findus-Vileda non è successo (ancora) niente di tutto ciò, ma vi riporto una curiosa controffensiva preparata da un singolo utente “evangelista”:
Je suis sofficino. Non volevo credere ai miei occhi. Ma sapete una cosa? Questo messaggio ha un sacco di significato!
In un colpo solo, con tre parole, si affermano un sacco di cose: che gli spot non c’entrano nulla con le trasmissioni faziose e che per favore ragazzi, anche chiudendo gli occhi e ipotizzando il contrario per attimo, non abbiamo fatto fin troppe crociate un po’ di tempo fa con la libertà di espressione?
La cosa bella dell’effetto Streisand è che funziona a due vie: da un lato, può affossare un brand dal più piccolo degli errori. Dall’altro, può farlo rialzare più forte di prima.
Ma non è tutto. Per essere un brand vincente anche in caso di crisi, in ultima istanza, è necessario…
- Essere pronti al mea culpa
Perché, cari top level manager e social media manager, la verità è che siamo esseri umani. We do mistakes. E dobbiamo pagarli, com’è giusto che sia. E sapete qual è la sorpresa? Alle persone piace sentire una azienda che ammette i propri errori e si impegna per migliorare sempre.
In un mondo in cui i miei bisogni possono essere soddisfatti da migliaia di aziende diverse, la mia scelta ricadrà sul brand sì più buono, ma anche più genuino e a me vicino in termini di comunicazione. Non “quello che non sbaglia mai”, ma quello che, se sbaglia, si abbassa e chiede scusa.
Scuse accettate, caro brand. Anzi, grazie per la tua umiltà.
Facciamo che ora esco, vado a comprarti, e facciamo pace.
“Facciamo che ora esco, vado a comprarti, e facciamo pace.”
Ma beato chi ti stipendia.